Carissimi,
rieccomi a voi dopo il periodo di “blackout” comunicativo dovuto al mese di Esercizi Spirituali, che ho terminato due settimane fa.
Ora mi trovo a Mount Isa, una cittadina di minatori e aborigeni in mezzo al deserto del Queensland nordoccidentale. Diciamo che se non ci fossero strade belle ed edifici dignitosi, la sensazione sarebbe decisamente più africana che australiana.
E del resto vi confido la mia principale scoperta dopo tre mesi che vivo qui: l’Australia assomiglia molto di più all’Africa che all’Europa o all’America del Nord. Di fatto, se si osserva la posizione geografica, si vede subito che la fascia occupata dal continente australiano è davvero simile a quella dell’Africa: una piccola parte si trova in zona continentale e una gran parte in zona tropicale. Inoltre, forse non sapete che l’Australia è il continente più arido del mondo, con sterminati chilometri di deserto, seguito dall’Africa. E non lo sapevo neppure io, né potevo immaginarlo finché mi trovavo nelle belle e ricche città situate nei punti più strategici della parte costiera.
Da lì non ci si rende conto di quanto sterminato sia il territorio dell’entroterra, il famoso outback. Trovandomi ora in pieno outback, percepisco l’Australia in modo diverso. Non solo, ma sono in aboriginal land, territorio aborigeno. Inutile dire che la sensazione di Africa a questo punto è decisamente moltiplicata, trovandomi in un posto dove il trenta percento della popolazione è di pelle nera.
Inizio dunque col descrivervi la realtà degli aborigeni: si tratta della popolazione originaria che ha abitato l’Australia da sempre, da quando esiste l’uomo. La loro cultura è antichissima, ma dal 1770 il capitano James Cook, sbarcato in Terra Australis, dichiarò che tale territorio era res nullius e aprì all’appropriazione indiscriminata della regione a favore dei coloni inglesi e poi di altre nazioni europee; così la popolazione aborigena – con la propria cultura – è stata o fisicamente distrutta o confinata in zone sempre più remote, sempre più all’interno, dove la vita è molto dura e l’ambiente molto diverso da quello nativo.
Gli aborigeni vivevano da nomadi, in perfetta integrazione e simbiosi con l’ambiente d’origine: il passaggio alla vita stanziale, nei paesi costruiti sul modello occidentale, ha creato in loro un disorientamento totale, tale per cui non si sono mai adattati alle nuove condizioni di vita. Perciò sono stati sistematicamente esclusi dal sistema di educazione e di formazione alla vita civile occidentale di stampo britannico, salvo qualche rarissima eccezione. Ora, vedendo tanti aborigeni vivere intorno al luogo fisico in cui mi trovo, mi accorgo che essi ci sono ma si aggirano, come ombre sparse, ciondolando nell’attesa che passi la giornata. E’ duro osservarli, ed è anche molto triste. Mi pare che siano una “stirpe estinta”, se fosse lecito usare questo termine di paragone.
E qui veniamo alla parrocchia in cui sto vivendo: mi trovo in una parrocchia perché questo è il secondo “grande esperimento” del Terz’anno. Sono stato mandato qui dal mio superiore per aiutare il parroco per un mese, svolgendo il mio servizio sacramentale ed aiutando là dove mi viene richiesto. Credo di essere stato molto fortunato, tra i tanti possibili luoghi di invio dove noi nove terzannisti siamo stati dispersi per questo mese, perché mi trovo in una realtà missionaria eccezionalmente viva, con un parroco “santo”, con parrocchiani generosissimi, in un contesto multietnico.
Qui c’è vita. Ce n’è soprattutto perché il parroco, che risiede a Mount Isa da più di vent’anni, ha saputo essere al servizio di tutti nella cittadina, ha creato una serie di centri di aiuto per gli aborigeni e di supporto ai loro disagi e ha dunque raccolto simpatia, solidarietà e aiuto permanente da tutti come contraccambio di quanto ha saputo mettere in piedi a favore della popolazione locale. In chiesa c’è sempre qualcuno, negli uffici parrocchiali si lavora alacremente, la parrocchia possiede e conduce un liceo con 450 studenti, molto vivo e pieno di attività extrascolastiche. Le Messe sono ben celebrate, con il forte contributo dei laici e un’ottima animazione liturgica. In particolare, la Messa della domenica sera assomiglia molto, per tipo di presenza e animazione musicale, alla nostra.
L’ultima cosa di rilievo che desidero raccontarvi è proprio la città, Mount Isa. Si tratta di una miniera, anzi di due grandi miniere. La città è la miniera. Tre grandi ciminiere si stagliano in mezzo al deserto che si estende per novecento chilometri prima di incontrare altre realtà urbane: Brisbane a sud, Townsville ad est, Darwin a nord, nei famosi “northern territories”, al confine con Timor e con l’Indonesia. E’ impressionante la presenza di questa miniera, è come vivere alle pendici di una montagna. E’ una montagna, nera, imponente, fumante ventiquattr’ore al giorno, tutto l’anno. Alle sue pendici si estende l’abitato, costituito da piccole case ad un piano, una zona di negozi e basta. Non c’è la classica struttura della via principale con intorno i negozi, e men che meno la struttura del paese medievale o della città rinascimentale. Nulla di tutto ciò. E, oltre a questo, non c’è nemmeno la borghesia. Questo fatto determina la realtà di un “paese senza ricchi”.
Quasi tutte le famiglie che vivono qui lavorano in miniera. Certo oggi le condizioni di lavoro sono salubri, ma chi si reca ogni giorno alla minerà deve inoltrarsi due chilometri sotto terra, e il turno dura dodici ore. Il turno da dodici ore è molto faticoso, specialmente se si considera che spesso lavorano nella miniera sia il marito sia la moglie, con la conseguenza infausta di avere orari diversi e quindi di non incontrarsi mai. Quando il lavoratore raggiunge l’età della pensione, abitualmente la sua famiglia si trasferisce in città, o comunque sulla costa. Quindi non ci sono i ricchi (i proprietari della miniera non risiedono in loco ma vengono, visitano e vanno), e non ci sono gli anziani. Le poche persone pensionate che ci sono, o sono attive in parrocchia, o vivono nella locale casa di riposo, che ho visitato tante volte in questi pochi giorni.
Il modo di stare al mondo in questo paese è così diverso da ogni altro luogo in precedenza visitato che mi fa riflettere. Mi fa riflettere su come sia possibile che esistano realmente luoghi così “diversi” in un mondo globalizzato: è vero che chi vede la tv a Mount Isa vede gli stessi programmi di chi sta a Milano (o a Sydney, se volete un termine di paragone più vicino), chi va al supermercato a Mount Isa trova gli stessi prodotti, e così via. Eppure qui la vita è diversa, radicalmente diversa. Provate ad immaginarvi cosa voglia dire abitare in un paese senza storia, in mezzo al nulla, senza prospettiva di futuro (quando la miniera sarà esaurita il paese si spopolerà), in condizioni di vita civica simili a quelle garantite dai nostri Stati di diritto, ma sostanzialmente in un posto che è un imbuto della società. Cosa emerge, in una realtà che, sotto l’apparenza di un luogo “civile”, non differisce di tanto da alcune delle grandi favelas dove l’uomo viene sfruttato quasi fosse un “animale da produzione”? Emerge la parrocchia. Sì, perché la parrocchia in questo paese è come una luce, è un centro di irradiazione di vita. Forse ora, dopo che vi ho descritto meglio il luogo dove mi trovo, riuscite a capire perché mi senta così fortunato nel fare questa esperienza in parrocchia, e così felice di sperimentare sulla mia pelle la verità di ciò che papa Francesco sta insistentemente dicendo da mesi: la Chiesa è missione. Ecco, sì lo è, qui veramente lo è, ed io ne sono testimone.
Buona Pasqua!
padre Eraldo